La pressione del gruppo sul minore causa infermità o semi-infermità?

in Diritto Penale

Continuiamo la nostra disamina sul tema della delinquenza minorile e di tutte le sue conseguenze psicologiche, sociali e penali.

Come anticipato in altri articoli che il lettore potrà ritrovare nel presente sito, per dare un apporto più completo a tali questioni abbiamo deciso di pubblicare una serie esplicativa di articoli che possano dare una visione più specifica al lettore interessato.

Continuiamo dunque, con la nostra rassegna di casi concreti, realmente accaduti, attraverso i quali mostreremo come si può intervenire sulla devianza minorile e come si possa prevenirla e contrastarla.

Oggi racconteremo un caso al quale molto spazio fu riservato nella cronaca nera italiana, passato alla storia con il nome evocativo di: “Le streghe di Chiavenna”.

Correva l’anno 2000 quando tre diciassettenni nel comune di Chiavenna, in provincia di Sondrio, compiono un omicidio premeditato e aggravato nei confronti di una suora. Le autrici, una volta identificate e sottoposte ad interrogatorio, confessarono le ragioni del gesto e la programmazione dell’atto. Dichiararono di aver agito per compiere un gesto grave, per scuotere l’intera comunità e consacrare la loro unione a satana.

L’agguato, premeditato, fu attuato in seguito ad una attenta organizzazione. La suora, infatti, fu attratta in una località isolata col pretesto di chiederle aiuto per una delle giovani che simulava di essere stata vittima di abuso, di essere incinta e, in conseguenza, di essere scappata di casa. Le indagini preliminari furono caratterizzate dal contributo di molte figure professionali, quali medici-legali, psichiatri, criminologi, psicologi e psicopedagogisti, che diedero il proprio apporto, molte volte non convergente.

Il giudice per l’udienza preliminare, accolta la richiesta di giudizio abbreviato, proscioglieva una delle autrici perché incapace di intendere e volere per vizio totale di mente, applicandole la misura di sicurezza del riformatorio giudiziario da eseguirsi nelle forme del collocamento in comunità per un periodo non inferiore ai 3 anni. Le altre due furono dichiarate responsabili dei reati a loro ascritti e condannate alla pena di 8 anni e 6 mesi di reclusione e alla stessa misura di sicurezza del riformatorio giudiziario, in seguito al riconoscimento di una parziale compromissione della capacità di intendere e volere per infermità di mente.

Il Procuratore della Repubblica impugnò la sentenza in appello, chiedendo una nuova valutazione della capacità di intendere e volere della rea prosciolta e un complessivo aggravamento delle sanzioni delle altre condannate. Presentarono appello anche i difensori delle due condannate, per ottenere un riconoscimento di vizio totale di mente e la loro non imputabilità. La Corte di appello, peraltro, respinse la richiesta di assunzione di nuovo materiale probatorio e l’audizione di nuovi periti, valutate già molto abbondanti le perizie raccolte in primo grado.

Il giudice di secondo grado confermava poi la parte della sentenza che aveva ad oggetto le condanne in primo grado e considerava imputabile la minore in precedenza prosciolta, perché non affetta da infermità, ma da seminfermità. Anche la terza autrice veniva così condannata alla pena della reclusione di 12 anni e 4 mesi. Il nuovo ricorso in Cassazione proposto dalle parti fu rigettato perché ritenuto infondato.

La spiegazione della divergenza tra la sentenza di primo grado e quella di secondo deriva dalle diverse perizie concernenti la giovane prima prosciolta e poi condannata. Mentre sulle prime due imputate tutti gli esperti interpellati concordarono sul loro “disturbo di personalità di tipo Borderline con presenza di aspetti narcisistici e depressivi”, per la terza le diagnosi e le valutazioni sono state sostanzialmente difformi.

Il giudice di primo grado aveva condiviso quanto espresso dalla maggior parte periti, ovvero che la ragazza fosse affetta da patologia dissociativa psicotica, tale da abolire la capacità di intendere e volere della giovane al momento della commissione del delitto. Il collegio d’appello, tuttavia, in seguito al riesame degli elaborati peritali, ribaltò la decisione giudiziale: la giovane venne giudicata, sicuramente dotata di una personalità deficitaria, specie in particolari momenti di fortissima pressione psicologica, ma solo parzialmente incapace di intendere e volere.

Il gruppo, anche in questo caso, ha rivestito un ruolo centrale. Il giudice di primo grado, infatti, aveva ritenuto che questo avesse avuto la funzione di annullare la capacità di volere, anche se limitatamente ad una delle tre ragazze, oltre che ridurre quella delle altre. In appello, invece, i giudici giudicarono il gruppo responsabile soltanto di una diminuzione parziale della capacità di intendere e volere dei singoli membri. Infatti il collegio d’appello specificò che: “Le condotte tenute dalle ragazze prima, durante e dopo il delitto evidenziarono in capo alle medesime un certo grado di autonomia.” Benché esistesse certamente un condizionamento reciproco derivante dall’appartenenza ad un gruppo comune, non si potevano ravvisare in nessun caso elementi tali da indicare un totale annullamento delle singole personalità.

Il gruppo venne eccessivamente sopravvalutato dai periti, a giudizio dei giudici in appello. La Corte finì per dichiarare nelle motivazioni della sentenza che l’impressione che se ne ricava “è quella di tre giovani che senza cercarsi si sono trovate e aggregate, in un momento cruciale del loro percorso evolutivo, non per affinità di intelletti, per comuni interessi o per corrispondenze affettive, ma per profonda similarità di strutture di personalità malate.”

Il gruppo qui non viene giudicato responsabile del compimento del reato, ma un mezzo per poterlo attuare. Le tre giovani autrici si dimostrarono fredde e spietate singolarmente; il gruppo aveva sì potenziato il loro intento criminale, ma non in maniera così forte da impedire il singolo dissenso a tale atto. L’unica soluzione possibile era che le giovani avessero tutte voluto, dimostrando capacità di agire, la commissione del reato, spinte da un movente satanista irrazionale, che poco aveva a che fare con la presunta immaturità delle giovani, ma che poteva solo spiegarsi con un’evidente infermità di mente, non tale, però, da escludere completamente la singola capacità di autocontrollo.

Bibliografia

  • R. BIANCHETTI, F. MARTELLI, Riflessioni cliniche e criminologiche sul caso “Chiavenna”, in Cassazione penale, 2005, pp. 1065 e ss. 199
  • Corte di Cassazione, Sezione I, 2003 sentenza n. 74
  • A. DELLA BELLA, F. KING, Il caso “Chiavenna”, le differenti motivazioni del giudice di primo e di secondo grado in tema di capacità di intendere e volere e di circostanze del reato, in Cassazione penale, 2004, pp. 667 e ss.
  • F. MARTELLI, R. BIANCHETTI, Criminalità minorile: analisi fenomenologica e casistica nei reati di gruppo, cit. p. 2581.