La pubblicità: quando è lecita, quando è denigratoria?

in Diritto d'Autore

Tema molto delicato quello che affrontiamo tutt’oggi. Il principale problema è la carenza di giurisprudenza specifica sul punto: nessuna recente sentenza della Corte di Cassazione e poche sentenze in generale, molto difformi tra loro. Questa carenza giurisprudenziale si unisce alla delicatezza del tema.

Quali sono i limiti di una pubblicità? Quali sono i limiti di onestà per un mezzo tipicamente tendenzioso, volto alla vendita di un bene, i cui produttori pagano l’agenzia pubblicitaria? E qual’è il limite che, se superato, porta alla denigrazione di un prodotto concorrente?

A queste domande hanno provato a rispondere due recenti provvedimenti del Tribunale di Milano: l’ordinanza del 3 dicembre 2020 e quella del 4 gennaio 2021.

Queste due decisioni, riguardanti cause diverse, hanno trovato i giudici concordi nell’emissione di alcuni principi che possono essere elevati a principi generali.

Innanzi tutto la pubblicità comparativa è in assolute lecita, a patto che non denigri il prodotto rivale con affermazioni false o consapevolmente omissive di caratteristiche esistenti.

Il codice civile dispone che “diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito” è un atto di concorrenza sleale (art. 2598 n.2).

I giudici chiamati a intervenire in materia, comunque, sono stati molto prudenti nel definire una pubblicità denigratoria o tendenziosa. Secondo i vari tribunali intervenuti, nel giudicare la materia, non bisogna mai dimenticare che la comunicazione pubblicitaria, per sua stessa natura non può essere mai imparziale ed obbiettiva.

Più delicato ancora il tema della pubblicità comparativa.

Se l’oggetto di comparazione è trattato in modo denigratorio o non veritiero, anche senza il nominativo esatto del prodotto (basta che sia direttamente individuabile dalla narrazione pubblicitaria) allora l’autore della campagna pubblicitaria sarà perseguibile, così come l’azienda committente.

Se si utilizzano, invece, nozioni oggettivamente accertabili, dunque veritiere, il discredito che ne deriverebbe sarebbe sostanzialmente meritato (Tribunale di Bologna 31 luglio 1976).