Quando e come produrre in giudizio screenshot e telefonate registrate.

in Diritto di Famiglia

Capita molto spesso a chi è titolare di uno studio legale come il nostro, che i clienti si presentino all’appuntamento in possesso di registrazioni audio, magari registrazioni di telefonate, o fotografie, molto spesso dello schermo dello smartphone, i così detto screenshot, convinti di avere in mano tutte le prove per poter incriminare chiunque di qualunque aberrazione ivi contenuta più o meno esplicitamente.

La diffusione di cellulari multi-accessoriati e di facile utilizzo, ci ha trasformati un po’ tutti in presunti esperti in indagini, e quando si tratta di inchiodare il marito o la moglie fedifraga, piuttosto che il socio scorretto o il dipendente bugiardo, tutti partono agguerritissimi per perseguire le proprie ragioni facendosi forza del materiale probatorio da loro raccolto più o meno onestamente.

Non tutti sanno, però, che non tutto ciò che si porta all’avvocato può essere legittimamente prodotto in giudizio.

Esistono applicazioni, disponibili su qualsiasi cellulare, sia con sistema Android che con iOS, che sono in grado di riprodurre chat con lo stesso font e gli stessi sfondi di WhatsApp, ma del tutto fasulle. È il caso di “WhatsPrank”, per esempio, app ideata per gli scherzi, che potrebbe produrre conseguenza molto più gravi rispetto alla semplice risata connaturata alla burla. Sono rintracciabili altre applicazioni che modificano direttamente lo schermo del cellulare, altre cancellano entro un termine di qualche minuto il messaggio o l’immagine inviata, palesando la volontà di non divulgazione delle stessa ad opera del loro mittente, oltre a falsare l’intera corrispondenza, se ne venissero a mancare alcune parti. Basti pensare ad un discorso, dopo che siano stati eliminati o dal ricevente o dal mittente stesso, alcuni stralci di messaggi propri o altrui: l’intera comunicazione sarebbe falsata.

Alla luce di tali considerazioni si può facilmente capire come non tutto quello che ci pare “prova certa” sia effettivamente non manipolabile né incorruttibile.

Avvertita l’esigenza di regolare la produzione di tali controversi mezzi di prova la dottrina e la giurisprudenza si sono mosse per colmare i vuoti lasciati da una legislazione che non riesce ad evolversi velocemente come altrettanto velocemente si è evoluta la tecnologia nell’ultimo decennio.

Nasce così la “Computer Forensics”, difficilmente riconducibile ad una definizione unica, ma identificabile sostanzialmente come disciplina che si occupa della preservazione, dell’identificazione, dello studio, delle informazioni contenute nei computer, o nei sistemi informatici in generale (i cellulari moderni sono del tutto assimilabili a personal computer praticamente da tutti i punti di vista), al fine di evidenziare l’esistenza di prove utili allo svolgimento dell’attività investigativa.

Qualunque dispositivo tecnologico possiede un sistema di memorizzazione di informazioni, sia esso una macchina fotografica digitale, un computer, un palmare, un telefonino, una console per videogiochi. Ognuno di questi oggetti si costituisce di due elementi: uno è fisico, facilmente osservabile, maneggiabile, “comprensibile”, l’altro invece è virtuale, immateriale, astratto e nuovo per noi.

Le regole di Computer Forensics agiscono studiando quest’ultimo elemento, per accertarne, dal punto di vista scientifico, i suoi gradi di sicurezza, di corruttibilità, di attendibilità.

Con la legge 48/2008 sono state introdotte nella procedura penale importanti novità che sostanzialmente hanno permesso la penetrazione delle metodologie di Computer Forencsis nell’acquisizione di fonti di prova informatica ad opera della polizia giudiziaria, che, in sede di ispezioni e perquisizioni dovrà adottare “misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione.

Si ricorda che è il giudice a dover ricostruire, sulla base delle prove raccolte in giudizio, la verità dei fatti ai fini della propria decisione. Le prove informatiche assolvono alle medesime funzioni di tutte le altre prove, anche se, come visto, per le loro caratteristiche intrinseche, presentano problematiche particolarmente delicate e complesse; in particolare la facilità con cui tali informazioni possono essere manipolate, alterate o distrutte.

Tutto ciò rende necessarie specifiche procedure per la loro acquisizione, analisi e conservazione.

Nel giudizio civile, di cui ci occupiamo principalmente nella nostra attività forense, l’art. 115 c.p.c chiarisce che, salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, oltre che valersi delle nozioni che rientrano nella comune esperienza. In ambito civilistico, inoltre, è opportuno ricordare un principio fondante del nostro ordinamento, espresso all’art. 2697 c.c., ovvero che chi vuole vantare un diritto, ha l’onere di provarlo. La prova è, dunque, sostanzialmente la dimostrazione della veridicità dei fatti che ciascuna parte chiede al giudice di accertare ai fini dell’ottenimento di un provvedimento ad essa favorevole.

Proprio in ordine all’efficacia dei mezzi di prova che si suole distinguere solitamente tra: Prove piene, idonee a dimostrare con certezza la veridicità dei fatti a cui si riferiscono, prove di verosimiglianza che favoriscono il convincimento del giudice circa l’attendibilità del fatto invocato dalla parte, pur non fornendo dimostrazione assoluta e gli argomenti di prova, che pur non possedendo pieno valore probatorio offrono al giudice elementi per la valutazione di altre prove o, più in generale, dell’intero procedimento giudiziario.

Esistono, inoltre, altre tipologie di mezzi probatori: è il caso delle prove legali, sottratte al contraddittorio delle parti e direttamente efficaci nei confronti del giudice, o le prove atipiche, i così detti indizi, laddove ammissibili per legge, che non hanno riconoscimento legale.

Dopo una lunga fase di disputa giurisprudenziale sulla questione dell’ammissibilità delle prova tratta dai cellulari, una recentissima sentenza della V Sezione penale della Corte di Cassazione (la numero 8736/2018) ha stabilito che la riproduzione di uno “screenshot” rappresenta una prova legale a tutti gli effetti, a prescindere della sua autenticazione, risolvendo tali problemi interpretativi con un taglio netto che, a nostro giudizio, molto difficilmente risolverà del tutto la questione. Nella stessa direzione si è mossa anche la Cassazione Civile, che con la sentenza n. 19155/2019, ha condannato un padre separato a pagare la retta dell’asilo del figlio utilizzando come prova gli SMS scambiati tra i genitori. La Suprema Corte ha ritenuto che e-mail e sms abbiano lo stesso valore della prova assoluta, in quanto contengono atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti se non vengono specificatamente contestati nella loro veridicità dalla parte contro la quale sono proposti. Per disconoscimento, ha proseguito la Corte, deve intendersi la dimostrazione della non rispondenza, esponendolo ad un prova che rischia di diventare diabolica.

Nel processo penale, gli articoli di riferimento in ambito probatorio sono sostanzialmente due: l’art 189 c.p.p, il quale espone che “Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione, sentite le parti, sulle modalità di assunzione della prova”, e il 234 c.p.p. che, sulla prova documentale ne consente l’acquisizione “di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualunque altro mezzo. Tale ampiezza in ambito probatorio è stata però limitato in Italia a seguito della ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, elaborata a Budapest il 23 novembre 2001,che, prudentemente, in relazione ai mezzi di ricerca della prova, sottolinea la necessità dell’adozione di misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione”.

Detto ciò, la Cassazione penale sembra non cogliere ancora tutti gli aspetti sull’alterabilità delle riproduzioni informatiche, ritenendole mere riproduzioni meccaniche ripetibili nel tempo. Restano in capo alle parti la necessità di dimostrare la veridicità del documento stampato o comunque di disconoscerne l’effettiva genuinità all’interno del contraddittorio, non consentendo, di poter aprioristicamente scartare la validità della riproduzione di uno screenshot, seppur effettuata in assenza di rigide garanzie tecniche e giuridiche.

Nel processo civile, la giurisprudenza, invece, in molteplici situazioni (ma non nell’assoluta totalità dei casi) si è dimostrata più prudente e attenta. Come abbiamo visto, la prova è “tipica”, nel senso che è prevista dalla legge, e l’art. 2712 c.c. prevede la possibilità di riprodurre ogni rappresentazione meccanica di fatti e cose (quindi anche screenshot o registrazioni telefoniche), che formano piena prova dei fatti rappresentate, ma solo se colui contro le quali sono riprodotte non ne disconosca la conformità ai fatti. Già la Cassazione nel 1994 si era dimostrata molto prudente a proposito della produzione in giudizio di tali mezzi di prova, ritenendo che non bastasse la mera stampa della pagina web, ma che fosse indispensabile il deposito di una copia autentica (sentenza 2912/94). Tale autenticazione, tuttavia, come abbiamo analizzato nel presente scritto, non è affatto semplice, e tale difficoltà è aumentata all’aumentare della tecnologia, che rende sempre più facile, e alla portata di tutti, la possibilità di contraffare tali mezzi probatori.

Il legislatore introdusse così, nel 2009, le così dette “marche temporali”, le quali contenendo una serie di informazioni sulla genuinità dei documenti stampati, consentono di cristallizzare il contenuto della pagina web di un determinato uniform resource locator, individuando i dati di sviluppo temporale e generando così il codice hash, ovvero una sorta di impronta digitale del file analizzato. L’alternativa oggi altrimenti percorribile è quella di far autenticare da un notaio il materiale informatico che si voglia introdurre in giudizio; sarà quest’ultimo a doversi accollare tutte le impegnative procedure di certificazione del contenuto di tali riproduzioni, e a doverle confermare nella sua funzione pubblica. La via più economica, ma anche non sempre possibile, è infine, quella di rendere attendibili tali documenti servendosi, laddove sia possibile, di altri mezzi probatori, come le testimonianze.

In definitiva, lo scopo di questo scritto, è far capire alle persone che non basta una telefonata registrata, una stampa di uno schermo del PC, o di un sito Web, o di un cellulare, piuttosto che di una conversazione WhatsApp, per dimostrare i contenuti di tali riproduzioni; a tale fine abbiamo illustrato i problemi che continuano a sussistere attorno alla veridicità dei contenuti ivi riprodotti.

Bibliografia

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