Dipendenti nascosti negli studi professionali.

in Diritto del Lavoro

Una pratica particolarmente odiosa, ma anche tipica della nostra contemporaneità, è l’imposizione dell’apertura di una partita IVA nei confronti di soggetti, che , di fatto, prestano la loro attività lavorativa in un rapporto di dipendenza nei confronti dei datori di lavoro, mascherati da collaboratori. La pratica, infatti, si rivela essere molto vantaggiosa per il datore di lavoro di fatto, che, sostanzialmente viene esonerato dall’obbligo di pagamento dei contributi, delle ferie e persino del TFR.

Gli ambienti nei quali è più facile che dipendenti vengano camuffati in liberi professionisti sono proprio gli studi professionali, in quanto è molto sottile il confine tra rapporto di subordinazione e quello di collaborazione per i lavori e le prestazioni intellettuali.

É il caso di un lavoratore che era stato assunto con la mansione generica di “segretario” da uno studio legale nella provincia di Bari, dal 1984 al 1990, anno nel quale lo studio legale associato licenziava il lavoratore, proseguendone però il rapporto lavorativo fino al 2001, inquadrandosi lo stesso, come collaboratore autonomo. Il lavoratore, che contestava l’interruzione della collaborazione, sostenendo che si trattasse di un vero e proprio licenziamento, proprio di un rapporto subordinato, ricorreva al giudice per vedersi riconoscere le differenze retributive del periodo di lavoro 1990-2001. In primo grado la decisione presa premiò lo studio legale, in quanto, a detto dei giudici di prime cure, il mutamento di mansioni da dipendente-segretario a collaboratore-libero professionista, dipendevano da una modifica concordata del rapporto di lavoro, volta a generare un rapporto più elastico in ottica di una riorganizzazione dello studio.

In appello, tuttavia, la sentenza venne ribaltata, in quanto i giudici riconobbero l’esistenza di tutti gli indici del lavoro subordinato.

La controversia si concluse dinnanzi alla Corte di Cassazione, che con sentenza 22634/2019 ha riconfermato un orientamento costantemente rispettato dalla Suprema Corte. Gli indici che rivelano la posizione subordinata di un lavoratore sono stati riconfermati e, nonostante abbiano natura indiziaria, la loro compresenza equivale a piena prova. Tra questi indici, riscontrati nel caso concreto, possiamo ricordare alcuni esempi:

  1. l’attività prestata all’interno dello studio,
  2. l’impossibilità di svolgere in via autonoma la prestazione in assenza del titolo di avvocato,
  3. le direttive impartite dal titolare dello studio legale,
  4. l’osservanza di un orario imposto dalla stessa organizzazione dello studio,
  5. la natura delle mansioni svolte di supporto a quelle dell’avvocato e nell’interesse dei clienti di quest’ultimo.

In definitiva la Cassazione ha sentenziato che è da considerarsi quale lavoratore subordinato il lavoratore impiegato a tempo pieno in uno studio professionale che svolga attività di natura prettamente intellettuale commissionatagli esclusivamente dallo studio in cui opera, pur non avendo il titolo legalmente riconosciuto per esercitare la professione legale.