Diritto alla privacy e diritto di difesa: la produzione in giudizio di dati sensibili secondo la Corte d’Appello de L’Aquila

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Quando la riservatezza incontra il processo: un delicato bilanciamento tra diritti fondamentali

Nel panorama giuridico contemporaneo, pochi temi risultano tanto sensibili e complessi quanto l’interazione tra il diritto alla protezione dei dati personali e il diritto di difesa in giudizio. Due diritti riconosciuti come fondamentali a livello europeo e costituzionale, che possono però trovarsi in rotta di collisione, specialmente in ambito lavoristico, dove documentazione interna, cartelle sanitarie, e atti amministrativi possono contenere informazioni di natura strettamente personale.

Un contributo prezioso alla riflessione arriva dalla Corte d’Appello de L’Aquila, che con la sentenza n. 96 del 18 marzo 2025 ha ribadito i criteri di liceità nella produzione giudiziale di dati sensibili, valorizzando la funzione costituzionale del processo e confermando alcuni fondamentali orientamenti della Corte di Cassazione.


Il caso concreto: documenti sanitari prodotti in un contenzioso lavorativo

La controversia prende avvio dalla richiesta di una lavoratrice dell’Azienda Sanitaria Locale, impiegata presso il reparto di Cardiologia, di ottenere un’indennità straordinaria Covid-19, prevista da un accordo integrativo per il personale esposto a turni e carichi straordinari durante l’emergenza pandemica.

Per comprovare la propria posizione, la lavoratrice aveva depositato in giudizio documenti interni del reparto, alcuni dei quali contenenti dati personali e sanitari di pazienti. L’Azienda ha reagito irrogando alla dipendente una sanzione disciplinare, adducendo violazioni della normativa in materia di privacy.

Il Tribunale di Teramo, in primo grado, aveva annullato la sanzione, e la decisione è stata confermata in sede d’appello.


Il principio di diritto: prevalenza della difesa processuale, se esercitata correttamente

La Corte d’Appello ha stabilito che, in presenza di un’esigenza difensiva concreta, la produzione in giudizio di documenti contenenti dati sensibili è ammissibile, anche in assenza del consenso degli interessati.

La ratio è chiarissima: il processo civile — e in particolare quello del lavoro — non può essere ostacolato da limiti che renderebbero impossibile la prova dei fatti. Tuttavia, ciò è possibile solo a condizione che siano rispettati i principi di necessità, pertinenza e proporzionalità, come richiesto dagli articoli 4, 11 e 24 del D.Lgs. n. 196/2003 (Codice Privacy) e dagli articoli 5 e 9 del GDPR.

Un trattamento per finalità esclusivamente difensive

La documentazione contenente dati di terzi non deve essere utilizzata per altri scopi se non per quello strettamente necessario alla difesa in giudizio. Inoltre, deve essere conservata e trattata per il solo periodo temporale strettamente necessario al raggiungimento di tale fine.


Giurisprudenza consolidata: il contributo della Corte di Cassazione

Il principio affermato dalla Corte d’Appello si inserisce in un filone giurisprudenziale consolidato, che ha ribadito negli anni la prevalenza del diritto di difesa, purché esercitato con le dovute cautele.

Tra le pronunce più rilevanti:

  • Cass. civ., sez. L, n. 33809/2021: legittima la produzione in giudizio di file aziendali da parte del lavoratore, anche in assenza di consenso;
  • Cass. civ., sez. I, n. 21612/2013: riconosce la liceità dell’uso processuale dei dati personali, a condizione che il trattamento sia proporzionato;
  • Cass. civ., sez. III, n. 8459/2020: sottolinea come, nell’ambito processuale, la disciplina generale sul trattamento dei dati personali non trovi piena applicazione, essendo sostituita dalle norme processuali.

In quest’ottica, la titolarità del trattamento dei dati utilizzati in giudizio si trasferisce all’autorità giudiziaria, la quale è chiamata a comporre le esigenze di riservatezza e quelle di accertamento del vero.


Le alternative processuali: accesso agli atti o ordine di esibizione?

Un’argomentazione interessante avanzata dalla parte datoriale è quella secondo cui la lavoratrice avrebbe potuto ottenere i documenti mediante:

  • accesso agli atti amministrativi ai sensi della L. n. 241/1990, oppure
  • ordine giudiziale di esibizione, ex art. 213 c.p.c. o art. 421 c.p.c.

La Corte però respinge tale tesi: entrambe le strade richiedono la collaborazione del soggetto che detiene i documenti, ovvero l’azienda. In caso di ostruzionismo o inerzia, l’efficacia probatoria sarebbe compromessa. Per questo, la produzione diretta della documentazione da parte della lavoratrice appare non solo legittima, ma necessaria.


Obbligo di fedeltà e utilizzo processuale dei documenti aziendali

Un ulteriore aspetto rilevante è il presunto contrasto tra tale produzione documentale e l’obbligo di fedeltà del lavoratore (art. 2105 c.c.). Anche su questo punto, la giurisprudenza appare costante: l’uso di documenti aziendali in giudizio non configura automaticamente infedeltà, quando ciò avvenga per tutelare un proprio diritto soggettivo.

Lo ribadisce chiaramente anche Cass. civ., sez. L, n. 12528/2004, affermando che la legittimità della produzione va valutata in astratto, sulla base dell’inerenza oggettiva dei documenti rispetto al tema della causa, e non sulla base della loro efficacia probatoria ex post.


Criticità e prospettive: il diritto alla privacy dei terzi

Pur nella solidità della pronuncia, non mancano profili problematici.

Il principale riguarda la tutela dei dati dei terzi (in questo caso, i pazienti), che rischiano di essere esposti a una pubblicità processuale non voluta né conosciuta. La sentenza non si sofferma adeguatamente su possibili misure di mitigazione, come l’oscuramento dei dati non rilevanti o la pseudonimizzazione.

Sarebbe opportuno, in futuro, che i giudici invitassero le parti, in via preventiva, a produrre documenti con adeguate misure di protezione dei dati, anche tramite strumenti tecnici.


Conclusione: il diritto di difesa come limite interno alla disciplina sulla privacy

La sentenza della Corte d’Appello de L’Aquila offre una chiara conferma: la privacy non è un diritto assoluto, ma va bilanciato con altri interessi di pari rango, tra cui spicca il diritto alla tutela giurisdizionale dei propri diritti.

In particolare, nel contesto lavorativo, dove il potere del datore di lavoro può concretamente ostacolare l’accesso alla prova, è fondamentale che la giurisprudenza garantisca spazi effettivi di autodifesa, pur nel rigoroso rispetto delle garanzie previste dal GDPR e dal Codice Privacy.