Birra doppio malto, pizza e… diritto: quando la legge condiziona il gusto

in Fisco e diritto tributario

Il week end si avvicina e viene quasi spontaneo pensare a una serata con gli amici, magari in pizzeria, magari bevendo una birra, magari un “doppio malto”…

Nel nostro immaginario collettivo, la birra doppio malto è sinonimo di una bevanda forte, ambrata, dal sapore deciso. Ma siamo sicuri che sia davvero così?

Dietro questa definizione si cela in realtà una classificazione di origine legislativa, nata non per descrivere le caratteristiche gustative della birra, ma per ragioni… fiscali. In questo articolo ti raccontiamo come il diritto italiano ha influenzato — e forse determinato — uno degli abbinamenti gastronomici più popolari del nostro Paese: pizza e birra.

Contrariamente all’idea comune, il termine doppio malto non si riferisce a un processo di produzione particolare, né implica la presenza di due malti diversi, né tantomeno descrive una birra più corposa o dal colore più scuro.

La definizione nasce da parametri oggettivi stabiliti dalla legge, e più precisamente da quanto previsto all’art. 2, comma 3 della Legge 16 agosto 1962, n. 1354, che recita:

“La denominazione “birra” è riservata al prodotto con grado Plato superiore a 10,5% e con titolo alcolometrico volumico superiore a 3,5%; tale prodotto può essere denominato “birra speciale” se il grado Plato non è inferiore a 12,5 e “birra doppio malto” se il grado Plato non è inferiore a 14,5.”

Ma cos’è il grado Plato?
È un’unità di misura utilizzata per indicare la concentrazione di zuccheri disciolti nel mosto di birra prima della fermentazione. Più alto è il grado Plato, maggiore sarà in genere la gradazione alcolica della birra finita.

In base a questa norma, una birra può essere definita “doppio malto” solo se:

  • ha un grado Plato ≥ 14,5, e
  • un titolo alcolometrico superiore al 3,5% vol.

Un altro aspetto interessante riguarda la portata esclusivamente nazionale di questa terminologia. La dicitura “doppio malto” non esiste nel panorama birrario internazionale. In altri Paesi, infatti, le birre vengono classificate in base allo stile (lager, ale, stout, IPA, ecc.), al tipo di fermentazione o agli ingredienti utilizzati, non in base ai parametri fiscali.

Questa differenza riflette una visione profondamente diversa tra legislazione e cultura brassicola, e contribuisce alla confusione tra i consumatori italiani, che spesso associano la “doppio malto” a una categoria qualitativa piuttosto che tributaria.

Quello che oggi è considerato un abbinamento classico, simbolo della convivialità italiana, non nasce da una tradizione gastronomica, ma da una precisa scelta normativa.

Negli anni ’50, infatti, il Governo italiano introdusse una licenza speciale per la vendita di alcolici a bassa gradazione. Lo scopo era incentivare il consumo moderato e offrire una forma semplificata di autorizzazione ai piccoli esercizi, in particolare alle pizzerie.

Le licenze complete per la somministrazione di alcolici (come vino o superalcolici) erano più costose e complesse da ottenere, quindi la maggior parte delle pizzerie dell’epoca si dotò solo della licenza “ridotta”. La birra, grazie alla sua gradazione inferiore all’8% vol, rientrava perfettamente in questo regime.

Risultato?
In pizzeria si potevano servire acqua o birra, ma non vino. E così, la birra divenne la compagna abituale della pizza, più per necessità normativa che per reale affinità gustativa.

Con il tempo, il consumo di birre a gradazione maggiore — come le “doppio malto” — si è diffuso anche nelle pizzerie, soprattutto in abbinamento a pizze dai condimenti ricchi, come quelle con mozzarella di bufala, gorgonzola o altri formaggi stagionati.

In effetti, le birre con un alto grado Plato tendono ad avere un gusto più dolce e corposo, che può controbilanciare l’acidità e la sapidità dei latticini.

Tuttavia, non esiste una regola assoluta: gli esperti di degustazione birraria e alcuni sommelier osservano che il concetto di “doppio malto” è troppo vago per orientare correttamente l’abbinamento con il cibo. Esistono birre con lo stesso grado Plato ma con caratteristiche gustative completamente diverse.

Molti gastronomi e professionisti del settore sollevano dubbi sull’accoppiata pizza-birra come scelta ideale. In effetti, l’acidità del pomodoro, la complessità degli impasti e la varietà dei topping possono richiedere abbinamenti più raffinati, come vini frizzanti, spumanti secchi o persino cocktail analcolici a base agrumata.

La tradizione, tuttavia, è dura a morire, e per milioni di italiani il binomio pizza e birra resta un rito del weekend, un momento di relax e convivialità radicato nella memoria collettiva.

Il caso della birra “doppio malto” dimostra come una scelta normativa possa influenzare non solo il mercato, ma anche le abitudini alimentari e culturali di un popolo. Quello che oggi consideriamo “normale” — ordinare una birra con la pizza — è in realtà il frutto di una regolamentazione introdotta per esigenze fiscali e commerciali negli anni ’50.

È un esempio emblematico di come il diritto possa modellare la società non solo nei tribunali o nei contratti, ma anche nelle piccole decisioni quotidiane, come scegliere cosa bere con la pizza.